"Le parole si trasformano in dati, la posizione geografica si trasforma in dati, le interazioni sociali si trasformano in dati, anche le cose, se connesse in rete (IoT), diventano dati. Le fonti possono essere rinvenute in qualsiasi device, sensore, sistema operativo, motore di ricerca, social network”. Si apre così la relazione dell’Agcom che esplora uno dei fenomeni più importanti della nostra epoca tecnologica: i Big Data.
Il flusso di dati che circola su internet è inarrestabile e in continua crescita: ogni minuto che passa vengono caricate 243mila foto su Facebook, vengono eseguite quasi quattro milioni di ricerche su Google, inviati 29 milioni di messaggi su WhatsApp, spedite 156 milioni di email, caricati 800mila file su Dropbox (e l’elenco potrebbe continuare all’infinito). Tutta questa attività genera tracce digitali – che vengono lasciate anche mentre ci si sposta da un luogo all’altro (grazie alla geolocalizzazione degli smartphone), quando si effettuano pagamenti sul web, quando si pratica attività sportiva monitorata da un’app, ecc. – che “rappresentano il fattore produttivo chiave di un’economia data-driven”.
Gli ambiti sia pubblici che privati in cui questi dati possono venire utilizzati sono molteplici: si possono “creare nuovi servizi, migliorare quelli esistenti, innovare i processi produttivi e distributivi, rendere l’offerta di tutti i prodotti e servizi (anche non digitali) più rispondenti alle esigenze di consumatori e cittadini”. Gli esempi concreti riguardano in primis il commercio online: le nostre ricerche su Amazon generano dati che consentono alla società di Jeff Bezos di conoscere sempre meglio i nostri gusti, e quindi di mostrarci solo i prodotti che potrebbero fare al caso nostro. Allo stesso modo, quegli stessi dati vengono venduti ad agenzie che li utilizzano per targettizzare gli annunci che vediamo mentre navighiamo sul web o su Facebook.
Un esempio differente viene dall’utilizzo dei dati per il miglioramento della user experience; una delle colonne portanti del piano strategico DigiTIM. I big data saranno infatti utilizzati nel completo rispetto della privacy, senza essere venduti a terze parti e in totale trasparenza per offrire un’esperienza utente sempre migliore: individuando in tempo reale le richieste e necessità dei clienti e consentendo così di trovare subito quello che si cerca. I big data, in questo modo, diventano uno strumento per offrire valore aggiunto ai clienti; ma nel totale rispetto della riservatezza degli utenti.
Il ruolo crescente dei big data rappresenta, secondo il report Agcom, una tendenza irreversibile e “rafforzata dal fatto che, per la stragrande maggioranza degli individui, una parte rilevante della vita privata, oltre che di quella lavorativa, si è trasferita in rete, diventando così una delle principali sorgenti di dati”. Da un punto di vista economico, i big data genereranno un valore di mercato che in Europa, secondo un rapporto ICD e Open Evidence, raggiungerà nel 2020 i 106 miliardi di euro (a fronte dei 60 miliardi di oggi); pari al 4% del PIL continentale. In questo fenomeno tanto globale quanto inarrestabile, però, non mancano gli aspetti negativi; per esempio quello della concentrazione del potere economico nelle mani di un numero molto ridotto di colossi (Google, Facebook, Amazon, Apple e pochi altri); che potendo fare affidamento su una quantità crescente di dati, sono in grado di offrire un servizio sempre più efficiente; accumulando un potere sempre maggiore e impedendo la nascita di nuove società. Le elevate barriere d’ingresso sono uno dei punti sottolineati nel report, che si focalizza però anche sull’aspetto relativo ai data center: “Al crescere della dimensione dei dati raccolti, aumenta la necessità di investire in tecnologie di acquisizione, conservazione e analisi dei dati”. Così, il mercato mondiale porta naturalmente alla concentrazione, “in cui spiccano le posizioni di piattaforme online come Amazon e Google”.
Come noto – soprattutto a poche settimane dall’introduzione del GDPR (il nuovo regolamento europeo sulla privacy) – non mancano le problematiche anche in materia di privacy: “Il consumatore non ha una chiara percezione di quali dati vengano ceduti, del loro reale valore e di come siano trattati”. Un tema che diventa decisivo nel momento in cui “da un insieme, ormai anche ridotto, di dati non personali, alcune tecniche psicometriche possono facilmente derivare informazioni individuali di natura sensibile (quali l’orientamento politico o sessuale)”. Queste pratiche, economicamente molto efficienti, presentano però evidenti rischi sociali: “La discriminazione, spesso su base algoritmica, rischia di estendersi, anche in modo involontario, a differenze nella popolazione fondate su etnia, razza, orientamento sessuale e stato di salute”. Un aspetto estremamente delicato che ha già sollevato parecchie polemiche, per esempio quando si è scoperto che alcune piattaforme mostravano annunci di lavoro differenti a seconda dell’etnia o il genere di chi li riceveva. Altri rischi si nascondono invece dietro l’utilizzo dei social network, diventati la principale fonte d’informazione per il 34% degli italiani: la personalizzazione dei contenuti (selezionati da un algoritmo che analizza i big data per mostrare ciò che ha maggiore probabilità di suscitare l’interesse dei singoli utenti) “facilitano la proliferazione di notizie false e la propagazione virale di contenuti polarizzanti”.
Come si risolvono tutti questi problemi? Secondo il report dell’Agcom, è necessario cambiare paradigma e “aprire la scatola nera che regola i processi che avvengono all’interno dell’ecosistema dei big data”. Vale a dire le modalità di “acquisizione del dato, il funzionamento degli algoritmi, i modi di conservazione e di analisi e gli usi che ne derivano”. In poche parole, c’è bisogno di maggiore trasparenza e consapevolezza. Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga.